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Tribunale di Bologna > Tutela della lavoratrice
Data: 24/05/2010
Giudice: Coco
Tipo Provvedimento: Ordinanza
Numero Provvedimento:
Parti: Consigliera di Parità per delega di S.C. – P. s.n.c.
DISCRIMINAZIONE DI GENERE ATTUATA AL RIENTRO DALLA MATERNITA’– IMPUGNAZIONE TRASFERIMENTO E UNILATARALE MODIFICA DELL’ORARIO – RISARCIMENTO DANNI EXTRAPATRIMONIALI.


Una commessa dipendente di una società proprietaria di due negozi, l’uno in Bologna e l’altro in Casalecchio di Reno,  era assegnata al tale secondo negozio,  che osserva orario continuato, in regime part time a 33 ore settimanali su turni. 

Ella doveva assentarsi dal lavoro per disturbi connessi al suo stato di gravidanza, e chiedeva l’interdizione anticipata dal lavoro in ragione delle mansioni affidatele, dovendo ricorrere all’intervento della DPL e della AUSL – in mancanza di collaborazione da parte della società datrice di lavoro. La anticipazione del congedo obbligatorio veniva disposta dagli enti preposti. 

Al termine del congedo parentale facoltativo,  la lavoratrice avrebbe dovuto riprendere servizio. La società datrice di lavoro le chiedeva dapprima di posticipare il rientro e fruire delle ferie e dei permessi maturati, richiesta alla quale ella consentiva. Ulteriore richiesta di fruire di ferie – nonostante l’esaurimento di tutte quelle maturate- le veniva reiterata alla scadenza, comunicandole che al termine ella avrebbe dovuto riprendere servizio nell’altro punto vendita, più distante dal suo domicilio,   che osserva un orario di lavoro spezzato, ciò che avrebbe comportato la necessità – per la lavoratrice - di ampliare il tempo della sua assenza dal domicilio per rispettare l’orario di lavoro.

Ella impugnava sia la illegittimità della collocazione  “forzosa” in ferie per un ulteriore periodo che   la illegittimità del provvedimento di trasferimento comunicatole verbalmente, ed offriva la prestazione lavorativa.

Presentatasi in servizio,  al termine del periodo di ferie forzatamente assegnatole, nel negozio ove aveva sempre prestato la sua attività,  non veniva ammessa al lavoro. Si rivolgeva ai carabinieri per avere prova della circostanza La situazione venutasi a determinare le provocava crisi di insonnia, tachicardia, disturbi dell’umore. La società datrice di lavoro formalizzava il suo trasferimento ad altro negozio per pretesa “incompatibilità ambientale. La lavoratrice si rivolgeva all’ufficio della  Consigliera di Parità della Provincia di Bologna per avere tutela.

Con ricorso ai sensi dell’art. 36,  2°co. Del d.. lgs 198/2006 e segg. e dell’art.1 lett.b) del d. lgs. 25.1.2010 la Consigliera di parità, su delega della lavoratrice,  chiedeva che il Tribunale, accertata la condotta di discriminazione di genere posta in essere a danno della lavoratrice in relazione al suo status di madre, dichiarasse nullosiail trasferimento ad altra unità, che la unilaterale modifica dell’orario di lavoro, con condanna a ripristinare l’orario di lavoro in conformità al contratto esistente tra le parti, ed al risarcimento del danno  non patrimoniale, ordinandoal contempo la cessazione del comportamento illegittimo perché in violazione della normativa sulla parità di genere e la rimozione degli effetti.

Il Tribunale, rilevata la coincidenza delle iniziative datoriali con il rientro dalle assenze connesse alla maternità, ed evidenziato che il trasferimento e la modifica unilaterale dell’orario, che avrebbero comportato una dilatazione dei “tempi di lavoro” a discapito del tempo dedicabile alle funzioni di accudienza ed educazione del bambino erano,  sul piano oggettivo – rilevante ex art. 25 d. lgs. 198/2006 - manifestamente pregiudizievoli per la madre (oltre che in violazione dell’art. 71 del ccnl, che prevede articolazione consensuale dell’orario di lavoro); rilevato che la prova della pretesa incompatibilità ambientale era richiesta in termini generici e non era suffragata da alcuna contestazione risalente al periodo precedente l’ininterrotta assenza della lavoratrice, protrattasi oltre un anno, accoglieva la domanda della lavoratrice.

Il Tribunale ha applicato il principio secondo il quale,  ai sensi dell’art.4 del dlgs 125/91,   la discriminazione diretta di genere  rileva in termini oggettivi, connotati dal prodursi dell’effetto discriminatorio, indipendentemente da ogni valutazione soggettiva sull’intento discriminatorio correttamente comprendendo nella nozione di discriminazione sia gli atti di gestione del rapporto che i comportamenti del datore di lavoro che producano effetti discriminatori. Si rammenta che il Dlgs n.5 del 25 gennaio 2010,  modificando l’art.  25 del codice delle pari opportunità, amplia il concetto di discriminazione, includendovi ogni disparità di trattamento nell’accesso al lavoro, alla formazione, nella promozione ma anche nelle condizioni di lavoro, attuato attraverso qualsiasi  disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento.

Ed ha applicato l’orientamento giurisprudenziale emerso in ambito comunitario (cfr Corte di Giustizia 11.10.2007 C460/06)    secondo il quale deve sempre qualificarsi come discriminatorio l’atto di recesso datoriale che tragga le sue effettive origini e motivazioni  nello stato di maternità  o gravidanza di una lavoratrice, stante la necessità di ricomprendere nelle discriminazioni per ragioni di sesso anche quelle  connesse alla maternità (in tal senso Tribunale di Pisa 4.8.2008).

Sotto il profilo probatorio il Tribunale ha ritenuto la sufficienza di un quadro indiziario della esistenza di una discriminazione diretta di genere, conformemente alle previsioni dell’art. 1 del dlgs 11.4.2006 n.198 come modificato dal dlgs 25.1.2010 n.5 (attuazione della direttiva 2006/54/CE) a mente del quale “le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso che abbia come conseguenza  o come scopo di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo